Il cane che si morde la coda

Il cane che si morde la coda Vedere un cane che si morde la coda infonde un sentimento di tenerezza, come vedere un bambino che in modo buffo si meraviglia guardandosi allo specchio o un anziano che tenta inutilmente di far funzionare il suo telefonino. Diverso è se il cane che tenta di mordersi la coda girando su stesso è spelacchiato e carico di pulci e tenta di azzannarsi la coda per fame. La situazione dei italiani.
Nell’ambiente del giornalismo italiano con il passare del tempo si sono formate due correnti di pensiero circa l’avvento delle nuove tecnologie nel campo dell’informazione che seguono un clichè abbastanza collaudato nel tempo e ricorrente all’avvento delle novità in ogni settore: gli apocalittici e gli integrati.
In questo preciso contesto gli apocalittici sono coloro che all’avvento di e ai giorni nostri dell’ hanno associato una visione negativa e distruttiva della propria professionalità coltivata all’interno di polverose redazioni, nella migliore delle ipotesi, andando a scartabellare tra polverosi archivi fotografici e copie fotostatiche di vecchie pagine di giornale. Gli integrati invece hanno riposto nelle nuove tecnologie non solo una speranza ma quasi una certezza di rilancio per le proprie casse magre di abbonamenti.
Entrambi hanno sbagliato e pure di grosso.
I primi, conservatori del proprio status, crogiolandosi nell’ovattata protezione dell’Ordine dei Giornalisti che più passa il tempo e più sembra un anacronistico istituto (fino a poco tempo fa l’esame per accedere alla professione si sosteneva picchiettando su una macchina da scrivere) atto a tutelare una casta e mera appendice esecutiva del sindacato, hanno mal tollerato la nascita di redazioni web, considerate la serie B del giornalismo e snobbato le nuove tecnologie.
Gli altri, gli entusiasti delle nuove tecnologie, hanno invece pensato che sarebbe bastata la tecnologia e il mezzo per veicolare le informazioni. Imbellettato, luccicante e retroilluminato, avrebbe dato nuovo smalto ad un modo di fare giornalismo che è rimasto uguale a se stesso pur veicolato in modo diverso.
In questo ultimo caso la celebre tesi di Marshall McLuhan secondo il quale “il mezzo è il messaggio” è stata quindi presa in toto assegnandoli quasi un valore morale e persino taumaturgico mentre in realtà parte da una considerazione di fatto e non è proposta come obiettivo da raggiungere.
Ma torniamo al cane che si morde la coda. I giornali e in particolare i quotidiani (sui periodici settimanali e mensili il discorso è un po’ diverso) parlano di se stessi o dei propri colleghi, le pagine che vengono fuori dalle (altra immagine legata alla rotazione) sono terreno per monumenti di autoreferenzialità che sfociano nel grottesco.
Le notizie hanno lasciato il posto all’opinione e soprattutto all’opinione sul lavoro dei colleghi. E così Libero e Il Giornale dedicano paginate per rispondere a quello che dice L’Unità o Repubblica dedica editoriali al comportamento di Belpietro o Feltri. Quando va bene e si tenta di allargare il discorso al problema reale dell’indipendenza della stampa si finisce poi, dopo poche righe, a parlare nuovamente di se stessi, del proprio essere migliori di, più liberi di, meno servi di e così via.
A qualcuno di questi signori è mai passato per l’anticamera del cervello che ai lettori possa fregare nulla delle loro beghe redazionali?
A quanto pare no, visto il calo vertiginoso di vendita di tutti i quotidiani, più o meno schierati e, a sentire da un’indagine pubblicata da poco sulla diffusione delle riviste e quotidiani su Ipad in Italia e nel mondo, lo stesso vale per le edizioni digitali.
Se qualcuno si era illuso che uno strisciare di polpastrelli sullo schermo sarebbe bastato a digerire più facilmente un’omelia laica della domenica di Eugenio Scalfari o un bilioso editoriale di Feltri, giusto per citarne due, si è sbagliato di grosso, e in alcune redazioni, con il mondo che quatto quatto se ne va da un’altra parte continuano a squittire e vomitare carta i vecchi fax.

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symbel (redattore)

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