Quanti egagri pascolano beoti nell’irco dolce di Roma. Quando sibilano i politicanti, tronfi del loro titolo, a noi si formano fastidiosi egilopi che appesantiscono le palpebre, gonfie come i palloni emostatici che si librano in cielo. Una certa acidità s’infonde nell’epigastrio, come uno sciame di fasmoidei col loro apparato boccale masticatore, che ronzano come tafani. Sanbabilini che s’aggirano nella Capitale della produttività, che febbrilmente biascicano oscure formule come sapodille frustate dal vento; i loro sapoti che cadono sul terreno e sbomicano effluvi zuccherini nutrendo i vermi della finanza.
L’Irap, questa fastidiosa imposta che campeggia su scartafacci logori, un’oscena scenomorfia che nelle più alte intenzioni doveva foraggiare gran parte della bella sanità. Ora lo sbombone Berlusconi scarpezza per depennare l’odiato tributo, mentre il ministro Tremonti orrisce dinnanzi a siffatta proposta.
Il deforme prometeo s’alza e avanza: ci vuol male.